Le nostre origini sono eurasiatiche, Pitagora era uno sciamano, dobbiamo insegnare pratiche meditative a scuola”: dialogo con Angelo Tonelli, che ha scoperto il punto d’unione tra Oriente e Occidente

Il libro è cerchiato da una bandella scoppiettante. “In anteprima il ritratto del ‘Mongolo di Taranto’ una rivoluzione negli studi sulle origini della nostra cultura”. Addirittura. Guardo. Pagina 15. “L’immagine realizzata nel V-IV secolo a.C. su ceramica vascolare protolucana”, proveniente dalla Magna Grecia e ora all’Università di Heidelberg, raffigura, in effetti, una specie di gran khan – barba aguzza, zigomi mongoli, occhi a mandorla – in lande platoniche. “Quando l’ho scoperto, ho ballato per tre giorni”, mi dice Angelo Tonelli, tra i grandi studiosi della sapienza greca antica. Tre giorni sono perfino pochi, dacché quel piccolo tassello, quel ritratto su vaso è la prova “inconfutabile di quanto dico da 30 anni”, cioè che “tra la Magna Grecia e l’estremo Nord Est dell’Europa e l’Asia, ovvero con lo sciamanesimo iperboreo” sussistevano relazioni “culturali, commerciali, spirituali”. Tali da denunciare le “radici eurasiatiche (altro che cristiane) della nostra civiltà”. Una rivoluzione culturale. Per chi conosce il lavoro di Tonelli, straordinario traduttore di Eschilo, Sofocle ed Euripide per Bompiani, e poi esegeta di Parmenide ed Empedocle, sempre per Bompiani, e di Eraclito e dei presocratici (come Le parole dei Sapienti) e indagatore dei misteri (nel fondamentale Eleusis e Orfismo) per Feltrinelli, la scoperta è la cima di una esplorazione intellettuale magistrale. “Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose… la Sapienza è un modo di essere non di pensare, ed è frutto del Sé mentre la filosofia lo è dell’ego… I Sapienti greci non erano uomini di scrivania, come forse amerebbero dipingerli a propria immagine e somiglianza gli esangui ermeneuti contemporanei, bensì individui che intraprendevano una via di continua ricerca di se stessi… e da questa ricerca spirituale venivano trasformati fin nelle intime midolla”, spiega Tonelli, tra i rari e acuti allievi di Giorgio Colli, in un libro che sistema il suo pensare, Attraverso Oltre (Moretti & Vitali, 2019). Alla prima parte, in cui Tonelli fa una panoramica dei punti salienti della sapienza greca – fondamentali le pagine su Parmenide, letto in sintonia con la Brhad-aranyaka Upanishad – fa seguito ‘l’azione’, l’incessante lotta dello studioso/sapiente con l’oggi. Allora Tonelli – supportato da studi che vengono anche dall’ambito delle scienze cognitive e dalle neuroscienze – mostra i limiti della ragione e le sconfinate potenzialità della mente, proponendo, ad esempio – così il titolo di un capitolo, di inattuale necessità –, “esercizi spirituali per aspiranti politici”. Almeno per uscire dalla finzione – funzionale al nulla – della democrazia recente (“la democrazia si sfalda perché non esiste più il démos – ovvero il popolo dotato di una propria identità – ma solo una sorta di óchlosfolla, insieme di individui mimetici – manipolata dai mass media consciamente o inconsciamente asserviti ai poteri e al dio denaro”). In questo modo – e anche qui tintinna, in oro, l’insegnamento di Colli – la sapienza non è scialba erudizione, astronomia libraria, ma si libra nel cuore del giorno, incide l’uomo, lo muta. (d.b.)

Parto dai fondamentali. Cosa intendi per “sciamanesimo greco”?

Parlare di sciamanesimo greco è già di per sé abbastanza rivoluzionario: a parte il mai sufficientemente lodato lavoro di Dodds su I Greci e l’irrazionale che già apriva in questa direzione, e gli studi di Colli, Eliade, Couliano, Burckert e Kingsley, la vulgata, accademica e non, proprio ignora questo vistoso fenomeno originario della nostra civiltà spirituale. Empedocle era dichiaratamente sciamano, anche se lo dichiarava:

Quanti sono i farmaci contro i mali e contro la vecchiaia
tu apprenderai, perché per te solo io voglio completare tutti questi insegnamenti.
E placherai la furia di venti infaticabili che levandosi sulla terra
devastano i campi con le loro folate, e se lo desideri,
a tua volta susciterai soffi benefici, e dalla pioggia scura
creerai siccità opportuna per gli umani, e dall’arsura estiva
farai scaturire correnti che nutrono gli alberi e †sgorgheranno nell’etere†
e trarrai fuori dall’Ade il vigore di un uomo estinto.

(fr. 110 DK)

E vistosamente sciamanico è anche il viaggio con cui si apre il proemio del Perì Phýseos di Parmenide:

Le cavalle che mi portano fin dove giunge il mio desiderio
mi scortarono, dopo avermi guidato sulla via
della Dea, che dice molte cose
e porta in ogni contrada l’uomo che sa.
Là fui condotto, perché fu là che mi portarono
le cavalle molto accorte, traendo il carro.
Fanciulle indicavano la via.
L’asse strideva nei mozzi, incandescente,
incalzato alle due estremità dai due cerchi rotanti,
ogni volta che le Figlie del Sole,
dopo avere lasciato la casa della Notte,
si affrettavano a scortarmi verso la luce,
distogliendo i veli dal capo con le mani.

Oltre alle Baccanti, sciamane al seguito del dio della trance, Dioniso, e alle  esperienze estatiche eleusine, per altro gestite istituzionalmente dalle famiglie sacerdotali degli Eumolpidi e dei Codridi, che presentano vistosi tratti in comune con le esperienze degli sciamani, esistono figure che si possono definire “sciamani” in senso stretto: il mitico Abaris iperboreo, che non mangiava mai, prevedeva il futuro e scacciava le malattie; Aristea, capace di sprofondare in lunghi  sonni, nel corso dei quali abbandonava il corpo fisico e si materializzava altrove; o ancora a Epimenide che a Creta, nella grotta sul monte Ida nella quale era nato Zeus stesso, incubò nell’estasi una sapienza “entusiastica” (vale a dire “pervasa dal dio”) e iniziatica; ma anche Hermotimo, Zalmoxis, Pitagora, Anacarsi possono venire annoverati, per certi tratti,  in questa schiera; e elementi sciamanici si trovano nelle catarsi dei Coribanti, nei Misteri di Samotracia, nell’oracolarità apollinea delle Sibille. Esiste uno sciamanesimo greco, a cui dedicherò un volume che Feltrinelli pubblicherà nel 2021-21, ed è bene prenderne atto, perché tutto ciò ha implicazioni profonde nella nostra formazione culturale e spirituale.

Il cosiddetto ‘Mongolo di Taranto’ sarebbe, per così dire, ‘l’anello evolutivo’ che spiega ciò che sostieni da sempre, cioè che tra Grecia e Oriente ci sono stati continui scambi, influenze, ‘adozioni’ che rompono lo schema dell’isolamento greco classico, della sua solatia unicità. Spiegaci meglio.

In generale gli studiosi di Filosofia Antica e gli intellettuali à la page rimangono arroccati alle Termopili a combattere i fantasmi di una influenza orientale sulla Sapienza e in generale la spiritualità greca, un po’ come quei guerrieri giapponesi che continuarono a restare nelle foreste armati fino ai denti per decine di anni dopo la fine della seconda Guerra Mondiale. I Sapienti e i filosofi sapienziali greci non erano Tarzan e Jane nella capanna dello zio Tom: viaggiavano (Pitagora in Egitto e Babilonia, Platone in Egitto, e così via), e esisteva una via della seta arcaica, per cui si trovava seta cinese nell’Atene del V a. C.; gli Sciti, barbarici e preziosi al contempo, erano trait d’union con le propaggini nordiche della Grecia e le steppe mongole, e soprattutto abbiamo testimonianze su Abaris, vissuto tra la fine del settimo  secolo e la metà del sesto,  sciamano, purificatore, aithrobátes ovvero viaggiatore  dell’etere, ministro di Apollo Iperboreo, portatore di poteri oltreumani come lo sarà il nostro Empedocle di Agrigento: in Abaris  saldamente si connettono Grecia arcaica, Siberia Orientale, Mongolia, Cina e Tibet. Come ha notato Peter Kingsley in uno studio provocatorio e fondamentale a lui dedicato, Abaris è nome collettivo: gli Ávari, popolo di arcieri e sciamani della Mongolia, Iperborei, agli estremi confini orientali dell’Europa con la Cina. Dalla remota landa iperborea Abaris viene chiamato in Grecia come sciamano purificatore – ambasciatore per contrastare la peste, e il Mongolo viene impugnando una freccia e senza mangiare nulla. Altre fonti ci informano che la freccia era molto grande e era fatta d’oro. La freccia d’oro di Abaris è lo strumento della sua estasi e concentrazione sciamanica nel segno di Apollo, il dio presso il quale andò a prestare opera quando scoppiò la carestia tra gli Iperborei. Ma la figura di Abaris si rivela ancora più significativa quando entra in contatto con Pitagora. Aristotele ci informa che quest’ultimo era una incarnazione di Apollo, e Giamblico aggiunge che il dio decise di incarnarsi per il beneficio degli umani. Altrove è Pitagora stesso a decidere di reincarnarsi per il beneficio degli esseri viventi, allo stesso modo dei bodhisattva buddhisti o del quṭh sufi. È proprio Abaris a riconoscere Pitagora come incarnazione di Apollo, e a consegnargli la freccia d’oro come segno di questa agnizione. E questo gesto sigilla una connessione tra spiriti e tradizioni sapienziali occidentali e orientali agli albori della nostra civiltà, perché la freccia, anche a prescindere dalla associazione al phurba tibetano, era simbolo sacro per le popolazioni iperboree. Questa analogia con le procedure di riconoscimento dei Lama reincarnati nella tradizione tibetana era troppo vistosa e inconfutabile – come anche l’interconnessione originaria Oriente-Occidente – per non sfuggire alle lenti miopi di accademici e razionalisti di ogni latitudine e longitudine, un po’ come accadde agli Indios d’America che non avvistavano le caravelle degli invasori semplicemente perché non avevano mai avuto esperienza di caravelle e non ne avevano lo schema mentale e percettivo. La fiducia nella reincarnazione è originaria, e ben viva sia nello sciamanesimo eurasiatico, e non solo. La troviamo nelle tribu del Nord della British Columbia, in America, e in generale nello sciamanesimo della Mongolia, della Siberia e dell’Asia Centrale, da dove si diffuse, con le migrazioni in epoca preistorica, sia a Est, attraverso il Pacifico, che a Ovest, in direzione del Mediterraneo, attraverso figure come Abaris. Acclarato che gli Iperborei e il loro Apollo, per il tramite di Abaris e Pitagora erano molto più vicini alla Grecia e alla Magna Grecia di quanto si sia sempre voluto credere, abbiamo reso giustizia all’Oriente che è nel nostro Occidente, specialmente magnogreco. Alla luce di tutto questo si capisce bene l’importanza del  ritratto di un guerriero vistosamente  Mongolo nel V-IV secolo a. C., nella Taranto del Pitagorico Archita: proprio mentre il volume stava  per andare in stampa, ho avuto il piacere (e ho ballato e brindato per tre giorni),  di ricevere l’immagine realizzata nel V-IV secolo a. C. su ceramica vascolare  protolucana, inclusa nel Corpus Vasorum Antiquorum Deutschland, custodito nella Heidelberg Universität, in cui si  ritrae realisticamente un guerriero vistosamente Mongolo. È un documento di eccezionale importanza per comprovare in maniera inconfutabile sia la relazione culturale, commerciale e come da almeno 30 anni vado sostenendo, spirituale, tra la Magna Grecia e l’estremo Nord Est dell’Europa e l’Asia, ovvero con lo sciamanesimo iperboreo, sia le origini eurasiatiche (altro che crisitiane) della nostra civiltà.

Orfeo mi pare il centro del tuo dire: parla agli animali e vaga tra i morti. Però non riesce a far risorgere alla vita Euridice. A un tratto scrivi, “la morte coincide con la rinascita”: cosa significa?

Intendo dire che la Sapienza orfica e eleusina (Orfeo che scende all’Ade, Persefone che viene rapita da Ades) si caratterizza come via catabatica e anabatica, di discesa agli inferi e risalita, che allude alla necessità, per la realizzazione spirituale, di conoscere il volto invisibile della psiche e della phýsis, come nell’opera al nero alchemica, o nel descensus ad inferos di Dante. La morte alla coscienza di veglia, ovvero egoica, coincide con la rinascita alla coscienza di risveglio, per dirla con Eraclito. Ma ho anche in mente la laminetta orfica che recita: “Ora moristi ora rinascesti, o tre volte beato, in questo giorno./ Di’ a Persefone che fu proprio Bacco a liberarti./ Toro ti slanciasti nel latte; capretto cadesti nel latte./Il vino hai in premio, o fortunato”. Morte è rinascita, in una simultaneità di opposti unificati: chi acquisisca la coscienza unitaria, oceanica, sigillata nell’esperienza dionisiaca, nella morte si connette con essa, e rinasce. Sia in vita che in morte (mi si conceda l’enigma) che vengono vanificate entrambe.

Nel tuo discorso, che luogo ha Cristo, come s’insinua l’esperienza dell’uomo di Nazareth?

Cristo è uno dei Sapienti sciamani, Grande iniziato portatore di una sapienza dell’amore. Non dissimile, mutatis mutandis, da Empedocle, o Pitagora, e quindi, a livello essoterico, un rivoluzionario della spiritualità che si riverbera nel rapporto tra gli esseri umani.

Continui a ribadire, con giustizia, la centralità ‘filosofica’ di Giorgio Colli, mi pare del tutto incompresa. Qual è l’insegnamento miliare di Colli?

Il mondo è espressione di una immediatezza, esteriorizzazione di un assoluto con il quale occorre ricongiungersi nell’esperienza mistica e misterica, e attraverso una ragione che sappia dissolversi a esso integrandolo: la conoscenza è salvezza e liberazione, e Apollo e Dioniso sono aspetti complementari della esperienza conoscitiva culminante nella riconnessione all’immediatezza stessa.

Il tuo scavo nella sapienza si traduce anche in una proposta ‘politica’: “Priva di una cultura della saggezza, dell’equilibrio e dell’illuminazione che la sostenga la democrazia si sfalda, perché non esiste più il dèmos (ovvero il popolo dotato di una propria identità) ma una sorta di òchlos (folla, insieme di individui mimetici), manipolata dai mass media”. Che fare, quindi?

Occorre sbrigarsi a recuperare il tesoro spirituale della Sapienza greca connessa con quella orientale, che ci autorizza a diffondere a livello di formazione scolastica e generale le pratiche meditative, come già le praticavano i Pitagorici, e dunque anche Parmenide, Empedocle, e che non sono eccessi di esotismo ma hanno radici nel nostro più autentico DNA culturale e spirituale: in tal modo si porrà rimedio al furto di organo perpetrato dal sistema controsapienziale, ovvero del nous, la coscienza unitaria o oceanica, e dello sguardo sapienziale, empatico e distaccato al tempo stesso, sulla vita, condizione unica per realizzare davvero l’homo sapiens, capace di trascendere i dati grezzi della istintualità cieca, senza decadere nel pessimismo ascetico-nichilistico, e dunque capace di relazionarsi da risvegliato a altri risvegliati. Questa paideía formerà, e già sta formando, cittadini, e dunque anche politici e governanti, consapevoli, solidali e capaci di agire in maniera consapevole e solidale. Hic Rhodus, hic salta!

Fonte:http://www.pangea.news/angelo-tonelli-intervista-sapienza-oriente-e-occidente/

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